Il commento dell'avvocato Laura Abet (Servizio legale LEDHA) sulla sentenza del TAR che impone l'obbligo degli educatori di formazione sanitaria nei CDD. Non si possono considerare le persone con disabilità come dei malati.
Il 5 marzo 2015 la Quarta Sezione del TAR Lombardia - Milano ha accolto il ricorso presentato dall'associazione “Senza Limiti” che chiedeva l'annullamento del bando di gara con il quale l’azienda speciale “Insieme per il Sociale” aveva indetto la gara per l’affidamento dei servizi a carattere educativo, socio assistenziale e di supervisione presso il Centro Diurno Disabili, nei Comuni di Cinisello Balsamo e Cusano Milanino. Motivo del ricorso era la richiesta nel bando, per le figure del Coordinatore e dell'Educatore, del diploma di Laurea in Scienze dell'Educazione e del diploma Triennale di Educatore Professionale. Il ricorso presentato dall'associazione “Senza Limiti” richiedeva invece come requisito essenziale, il possesso del titolo di Educatore Professionale rilasciato dalle Facoltà di Medicina e Chirurgia (ed DM 520/98, con laurea SNT2).
Inquadramento normativo
Nell’ambito del sistema di offerta lombardo dei servizi per le persone con disabilità, notevolmente cambiato nell’ ultimo decennio, i Centri Disabili hanno visto trasformare la propria essenza all’interno del più ampio piano regionale di riorganizzazione del sistema sanitario e socio-sanitario, partito con le delibere attuative della Legge 328/2000 e conclusosi solo nel 2008 con la definizione della Legge regionale 3/2008 - Governo della rete degli interventi e dei servizi alla persona in ambito sociale e socio-sanitario.
È importante sottolineare come tale legge si occupi di regolare la rete dei servizi in Regione Lombardia per “promuovere condizioni di benessere e inclusione sociale della persona, della famiglia e della comunità e prevenire e rimuovere o ridurre situazioni di disagio dovute a condizioni economiche e psicofisiche o sociali” (art.1), in linea con l’art 3-sempties del Dlgs n. 502/1992 che descrive in via generale le prestazioni socio-sanitarie volte a soddisfare le esigenze di tutela non solo della salute delle persone, ma anche del recupero e mantenimento delle autonomie personali e di inserimento sociale e miglioramento delle condizioni di vita.
La legge regionale 3/2008 attribuiva alla Giunta il compito di individuare la rete dei servizi sociali e socio sanitari, ma nel settore della disabilità si sono poi solo richiamate le delibere già emanate precedentemente e quindi il riferimento è quello alla Dgr 18334/2004 - Centri Diurni per le persone con Disabilità, facendo riferimento quindi a un sistema di servizi già riordinato dall’attività della Giunta regionale negli anni precedenti. I Centri Diurni Disabili, che da ora in poi solo per brevità nomineremo CDD, si inseriscono quindi nella realtà delle Unità di Offerta dei Servizi Socio – Sanitari, quindi come si evince dalle parole, un servizio sociale in primis e subito dopo sanitario e prevedono la realizzazione di attività di carattere riabilitativo, socio riabilitativo ed educativo che vengono definite in base ai Progetti Individualizzati stilati per le persone che lo frequentano.
D’altra parte non possiamo non evidenziare/denunciare, data la natura del nostro servizio legale dedicato allo studio dei fatti e dei diritti riguardanti la disabilità in generale, come in realtà l’approdo a questo servizio dai CSE (Centro Socio Educativi) abbia creato non poche problematicità all’interno dell’intero sistema e soprattutto importanti ricadute sulle famiglie e sulle persone con disabilità stesse. Infatti in seguito alla Dgr istitutiva dei CDD, quasi tutti i CSE si sono adeguati ai nuovi standard organizzativi richiesti dalla Regione per trasformarsi in CDD e ottenere quindi l’accreditamento regionale. Sono pochissime le strutture rimaste allo stato originario.
Per dare qualche numero in termini di posti autorizzati i CDD in Regione Lombardia rappresentano il 72,6 %, mentre gli SFA ricoprono il 20,4% e i CSE il rimanente 7% (dato 2011). Una scelta certamente anche di tipo gestionale in quanto i CDD, rispetto ad esempio ai CSE, possono contare per il loro finanziamento anche su una quota del fondo regionale sanitario, mentre i CSE, essendo UO Socio Assistenziali, sono sostenuti solo dalle risorse comunali e dalle richieste di partecipazione alla spesa verso utenti e spesso, se non quasi sempre, le loro famiglie, dati che il TAR in questione conosce fin troppo bene.
E forse è su questo punto che c’è stato il travisamento della norma presa in esame.
Natura del servizio
Ma andiamo con ordine. Questo excursus storico è molto importante per comprendere la natura del servizio oggetto della Sentenza del Tar. La Sezione Quarta ha emesso una sentenza in forma breve, molto semplicistica per la verità, che dichiara che si tratta di un "servizio complesso a contenuto prevalentemente sanitario" senza aggiungere altro e peraltro nulla motivare in punto, anzi dichiarando soltanto che “la figura dell’educatore non sarebbe coerente con la natura dell’attività che tali soggetti sono tenuti a svolgere”.
In realtà nulla di più errato e non corrispondente alla realtà. Realtà che le persone con disabilità toccano nel loro vissuto quotidiano, quando frequentano questi centri. La Dgr 18334/2004 che li regolarizza prevede innanzitutto l’esistenza di una parte sociale, poi quella educativa e solo dopo evidenzia la parte sanitaria.
Anche senza ricordare la provenienza del CDD dal CSE, le persone con disabilità trascorrono le loro giornate, dal lunedì al venerdì, entrando alle 9.00 del mattino in questi servizi e poi tornano a casa alle 16.00 del pomeriggio. Giusto per dare un esempio pratico le giornate sono scandite con un orario strutturato, molto spesso troppo, passando dai momenti di accoglienza, fino a volte ad uscite “straordinarie” (un esempio per tutti: attività di piscina estiva, incontri con squadre di calcio, momenti insieme ai Servizi CSE…con momenti che dovrebbero avvicinare le persone con disabilità alla Comunità e al territorio, come la parrocchia o il circolo ARCI del paese).
Il pranzo è un importante momento di convivialità e di scambio fra utenti ed educatori, che contribuisce alla costruzione del gruppo. Il primo pomeriggio viene impiegato per le attività di autonomia personale (pulizia denti, bagni…), di autonomia domestica (come sparecchiare, preparare il caffè, asciugare le stoviglie..) e di attività creative pomeridiane che riprendono alle ore 14.30. Le proposte educative toccano le aree: pre-lavorativa e delle autonomie, l’area cognitiva (acquisizione di abilità funzionali di lettura, scrittura, memorizzazione, attenzione.. ), l’area di animazione psicomotoria (attraverso il proprio corpo prendere maggiore coscienza di sé, comunicare anche attraverso il linguaggio non verbale) e l’area creativa con cui si vuole favorire l’espressione di sé attraverso la manipolazione e la fantasia. La giornata si conclude con la preparazione all’uscita e il ritorno a casa.
Un approfondimento questo necessario per far comprendere la realtà vissuta in questi servizi. Le attività svolte denotano la natura innanzitutto sociale e abilitativa del servizio, non altro. Anche se si tratta di centri che, alla fin fine, tengono le persone con disabilità alla finestra della vita, come semplici testimoni, troppo spesso non facendo fare loro ciò che potrebbero fare e soprattutto hanno il diritto di fare nel rispetto della dignità della persona, così come sancisce l’articolo 2 della nostra Costituzione.
Le persone che frequentano i CDD hanno certamente in molti casi anche necessità di tipo sanitario ma che non possono, e non devono, essere confuse con quelle di tipo ospedaliero. Le persone con disabilità sono persone, secondo la definizione universale della Convenzione Onu dei diritti delle persone con disabilità (Legge n.18/2009), che presentano una duratura menomazione fisica, mentale, intellettiva o sensoriale la cui interazione con varie barriere può costituire un impedimento alla loro piena ed effettiva partecipazione nella società, sulla base dell'uguaglianza con gli altri. E non dei malati, come il ricorrente vorrebbe far passare.
Ed è intorno a questa errata interpretazione che la Corte ha forse travisato, seppur nell’intento di voler salvaguardare le persone stesse, i loro reali bisogni, le loro reali aspirazioni. È indubbio che le persone con disabilità non desiderano, e quindi non devono, essere trattate come dei malati: considerare come incoerente, la figura professionale dell’educatore che deve invece gestire tutte le attività sopra descritte è, viceversa un fatto grave, significa aver travisato la natura integrata del servizio. Le attività sanitarie devono essere demandate, come la delibera regionale peraltro prevede espressamente, al personale medico e infermieristico che è sempre presente e disponibile, là dove previsto: ciascun professionista prenderà parte alla realizzazione del Progetto Individualizzato per la parte che gli compete.
Il giudice del Tar lombardo, pur sensibile come si è potuto vedere negli anni alle tematiche relative alla disabilità, è giunto comunque a una erronea interpretazione delle norme e dimostra di non aver compreso la reale natura dei CDD, come si svolgono le attività nel corso della giornata e come siano rivolte alla riabilitazione, all’educazione e all’inserimento nella società delle persone e non altro. Il Giudice esprime il suo giudizio facendo riferimento a un servizio complesso, va bene. Ma giunge poi frettolosamente alla conclusione che è un servizio prevalentemente sanitario, là dove questo assunto non può essere accettato, anche perché non spiegato, alla luce delle definizioni sopra riportate e della natura del servizio descritto, né dalle persone che lo frequentano né tantomeno da un’associazione come Ledha a difesa dei diritti delle persone con disabilità.
Per fugare proprio ogni dubbio, il CDD non può essere paragonato a un ospedale in cui dover fare dei ricoveri diurni, perché le persone non necessitano di cure sanitarie costantemente, otto ore al giorno. Certamente nessuna norma Regionale o Nazionale lo dichiara. Non si nega che la Dgr 18334/ 2004 preveda tra le figure professionali che il 50% appartenga all’area educativa, all’area riabilitativa e all’area infermieristica, ma l’ordine di priorità è quello riportato e poi, soprattutto, viene lasciata grande flessibilità al CDD stesso di individuare la percentuale in relazione al Progetto individualizzato delle persone che lo frequentano…stabilendo ancora che un ulteriore 30% verrà definito dalla struttura a cui può concorrere anche personale medico e psicologico, sempre quindi in base ai Progetti individualizzati. Ancora un volta, una possibilità, non un vincolo legato alle “esigenze di vita della persona,
La sentenza in forma semplificata del TAR
Nella Sentenza n.659/2015 del TAR troviamo fatti propri gli assunti del ricorrente secondo i quali la condizione per poter essere utenti dei CDD è quella di essere persone con disabilità grave e gravissima, bisognosi quindi di particolari cure e attenzioni di carattere sanitario e quindi il coordinatore e gli educatori che lavorano nei CDD devono possedere una formazione di base prevalentemente sanitaria e non sociale e umanistica, altrimenti il loro lavoro risulterebbe inefficace o anzi pericoloso per la salute dei loro utenti.
Forse le mancate corrette notifiche del ricorso, la negata possibilità data alla Regione di essere considerata parte del processo là dove invece è parte fondamentale e la non comparizione del Consorzio non hanno permesso la reale costituzione del contraddittorio e hanno erroneamente portato il Giudice del TAR ad emettere una Sentenza, ricordiamo in Forma semplificata, che ha trascinato, per la sua stessa natura processuale, alla non considerazione tutti gli altri importanti aspetti.
Forse si è peccato solo di superficialità, proprio perché la sensibilità del TAR ci è nota, partendo dal presupposto ritenuto erroneamente e illegittimamente “benevolo” che una qualificazione sanitaria possa essere considerata più competente e non, invece, più segregante.
Quello che le persone desiderano
Oltre queste considerazioni la Sentenza risulta comunque inaccettabile non solo perché in violazione con le norme regionali e nazionali, ma soprattutto perché non corrispondente a quanto le persone con disabilità, alla luce dei principi della Convenzione Onu, richiedono: nessuno vorrebbe essere ricoverato in “day hospital” dalle 9.00 alle 16.00 di ogni giorno.
Il fine di tali servizi è quello ben diverso di favorire l'inclusione sociale delle persone con disabilità, di individuare i bisogni assistenziali e i bisogni educativi valorizzando le risorse della comunità e tutti gli interventi di carattere realmente abilitativo e in via residuale, lasciata alla valutazione del CDD sul singolo caso, sanitario.
Alla luce di tutto quanto sopra, vogliamo ribadire e concludere come l'approccio corretto ai temi della disabilità possa essere solo quello bio-psicosociale e non certamente quello solo sanitario e auspichiamo che il ricorso in appello al Consiglio di Stato da parte del Consorzio dei Comuni possa trovare accoglimento in quanto la sentenza in questione non può non essere considerata ingiusta e lesiva degli interessi delle persone con disabilità da parte delle persone oltre che da LEDHA.
Laura Abet
avvocato presso il Servizio Legale Antidiscriminatorio LEDHA